
Il dolore è un cane fedele
16 Giugno, 2025
Illustrazione: Evelyne Mary
La lealtà al dolore è infima.
Si infila nelle ferite aperte dei bambini.
Quando sono ancora esposte con la carne viva e le cellule brucianti.
Si insinua e convince il bambino che in fondo è solo.
Che il mondo non è in grado di comprenderlo, accoglierlo, sostenerlo
Il dolore sussurra all’orecchio del bambino parole dolenti, insolenti, feroci.
“Lo vedi che non ti capiscono?”
“Lo vedi che non ti meriti rispetto?”
E se ricapita qualche episodio dove il bambino nuovamente non viene tutelato e compreso, il dolore aggiunge:
“Lo vedi che sono tutti uguali?”
“Lo vedi che non ce la fanno proprio e devi cavartela da solo?”
Se il bambino crede a quel dolore, e talvolta ai bambini rimangono solo le credenze, quelle frasi diventano piloni portanti, pilastri centrali, torri di cemento armato che gli paralizzano l’identità e la cristallizzano. Con questi dovrebbero costruire le case per renderle antisismiche.
Lui cresce ma loro ancora rimangono in piedi e solidi.
Diventa adolescente, poi adulto e se ancora non ha rimesso a punto le responsabilità, non ha validato le emozioni provate quando ha subito i primi colpi e poi quelli che ne son susseguiti, il dolore vince.
Perché la cosa più difficile non è star bene, ma smetterla di alimentare il dolore.
Immaginatelo come un cane grosso, scuro accanto alla persona.
Non l’attacca direttamente, anzi, quasi sembra proteggerlo.
Gli ripete che il mondo è pericoloso, che non deve fidarsi e per fortuna che ha lui accanto a difesa.
Il cane tiene distante gli altri ma ha bisogno di mangiare e la persona gli offre volontariamente brandelli della propria carne.
Il cane offre riparo, solitudine, memoria del dolore passato, dolore reiterato.
Il cane suggerisce alla persona come leggere le situazioni.
La persona si fida, perché il cane le è fedele e lei lo ripaga nello stesso modo.
Se ha ringhiato deve esserci un motivo.
La persona fraintende, cova, esplode, confonde, si chiude.
Quando la persona si isola il cane ha vinto.
La lecca e le dice “non ti preoccupare ci sono io”.
In quel momento c’è poco da fare, perché se qualcuno si avvicina mentre la persona sta male, il cane ringhia e non lascia avvicinare nessuno.
L’inconscio è così fedele al dolore, che non si accorge che è proprio la sua reiterazione che lo fa soffrire.
Se prima c’erano dei carnefici reali, ora il carnefice è la vittima stessa.
Vitima di se stessa.
Lei è il cane, lei è la carne sanguinolenta divorata, lei il dolore.
Uscire da questo significa iniziare a non nutrire più il cane.
Lasciarlo affamato.
Cercare la relazione quando l’automatismo suggerisce di isolarsi.
Prestare ascolto senza giudizio quando il pensiero suggerisce di interpretare le parole.
Scegliere la parola quando la gola si chiude in un nodo scorsoio.
Individuare la via di uscita e una radura grande e sconfinata quando il corpo vorrebbe un angolo, un riparo chiuso e solitario.
La guarigione non è mai scontata né indolore, ma molto più accessibile di quanto si creda.
Si parte riconoscendo quanto siamo leali al dolore.
Si prosegue contrastando la sua forza distruttiva e cercando di riattivare la spinta vitale che ci ha messi al mondo.
Si conclude onorando la vita che ci pervade, così priva di giudizio e densa di pura voglia di esistere e stare.
Stare con quel che c’è.
Iscriviti alla nostra newsletter